Due lunghi racconti, anzi quasi due romanzi, risalenti entrambi al 1897, accomunati dalla rappresentazione dell’indigenza materiale come specchio della miseria interiore. Anime depravate si aggirano in un ambiente contaminato dalla povertà, dalla sporcizia, dalla malattia e, soprattutto, dal vizio, peccato inevitabile per chi non ha altra scelta, per chi riesce a piegare le labbra in qualcosa di simile a un sorriso solo innaffiando il proprio organismo con fiumi di acquavite. La speranza non esiste e non è nemmeno contemplata, perché per gli individui tratteggiati da Gor’kij interrogarsi sul mistero della vita e sull’origine della sofferenza umana corrispondono alla stessa cosa. Un elemento, però, certamente manca a queste pagine: la superficialità. Ogni sfumatura dello spirito viene, infatti, scandagliata dalla penna ardente ed energica dello scrittore russo che non sa dimenticare (e qui si ritrova tutta la sua potenza) di essere stato, e in qualche modo di essere ancora, un vagabondo in preda al vento della disperazione.