Una trama sfuggente costringe il lettore ad arrendersi (e di conseguenza ad abbandonarsi) di fronte all’impossibilità di discernere tra verità e proiezione fantastica. Sembra che i personaggi di carta si trasformino in autori di storie da favoleggiare con anarchica bramosia a un pubblico assetato di suggestioni più che di avvenimenti. Il piacere di raccontare mescolato con quello di ascoltare. E così il plot, uscito dalla porta (di servizio) per pindareggiare qua e là senza meta, finisce per rientrare dalla finestra pirandellianamente trasfigurato. La percezione del reale sfuma nei dettagli più intimi dell’anima, vivisezionando le asperità dello spirito umano con tragica ironia. Cabala bianca (1944) non dimostra i suoi ottant’anni. Nonostante le sue primavere, sembra scritto ieri (anzi domani).