Quando il camino di una villetta in un sobborgo di Perugia si intasa, nessuno pensa di trovare murato al suo interno il cadavere di un uomo, ma il vicequestore Irene Bruno e l’ispettore Marco Lolli comprendono subito di trovarsi di fronte al primo delitto della lunga faida che ha sconvolto l’Umbria. Il cadavere, infatti, è quello di Mimmo Sabeninca, rampollo dell’omonimo clan che contende a quello dei Barbaro il controllo del territorio. Da tempo le cosche di ‘ndrangheta hanno messo radici nella regione, dove hanno imposto le loro ferree leggi, gestendo i giri di droga, riciclando capitali sporchi e praticando prestiti a strozzo.
Mimmo Sabeninca era uno “sciupafemmine” e pur essendo sposato con una delle donne del suo clan, aveva avuto una relazione anche con la figlia illegittima di Giosuè, l’erede designato della famiglia Barbaro, ecco perché il vicequestore Bruno e l’ispettore Lolli sospettano che a dare inizio alla faida sia stato proprio Giosuè Barbaro che, ammazzando Mimmo e nascondendone il corpo, ha voluto vendicare l’onore della famiglia. La verità, però, avrà risvolti impensabili anche per l’arcaico codice d’onore delle ‘ntrine, e sarà molto più sordida e sconvolgente dell’omicidio in sé.