"Questa è un'altra delle storie che ho scritto nel giugno del 1955 e che vorrei riesumare, sia perché è un'opera interessante, sia per la luce che getta sui lavori posteriori. Di nuovo, come con The Silent Colony, cercavo di imitare i maestri: stavolta mi avventuravo oltre il territorio di Robert Sheckley, arrivando addirittura dalle parti di William Faulkner. Quando studiavo alla Columbia University nel 1954 avevo letto con meraviglia, nel corso di un'intera nottata, il suo romanzo Mentre Morivo. L'utilizzo non solo di molteplici punti di vista, ma addirittura di narratori diversi mi parve una trovata tecnica sconvolgente ed entusiasmante, e con la fretta della gioventù mi cimentai in I canti dell'estate. Dato che già quasi padroneggiavo — o così mi pareva — la tecnica convenzionale con punto di vista singolo, all'età di vent'anni ero pronto a sperimentare forme più ambiziose di narrativa (e anche alcuni temi, come quello della mente collettiva, che avrebbero fatto ritorno più volte negli anni seguenti).” Così racconta Robert Silverberg nella presentazione a quest’opera.
Il racconto narra di un americano medio della cultura consumistica che si ritrova, per una casualità spazio-temporale non ben definita, nel lontano futuro e alle prese con una civiltà di tipo pastorale. Scritto già nello stile limpido e al tempo stesso complesso e sofisticato di questo grande autore, I canti dell’estate è uno studio sociale delle caratteristiche dell’essere umano occidentale, e ci mostra in nuce le capacità tecnico-narrative che Silverberg avrebbe poi sviluppato nei capolavori successivi.